Il carbonaio, un antico mestiere
L’attività del carbonaio, ora scomparsa, è stata praticata nella valle di Albaredo fino alla metà del ‘900. Una bella carbonaia è ancora visibile oggi lungo il percorso dell’Ecomuseo. Costuire la carbonaia richiedeva molta maestria.
Nella pubblicazione “I mestieri di una valle alpina” è riportata una interessante testimonianza di Eligio Mazzoni, classe 1906, che praticò questo mestiere.
“La legna da sempre è stata la risorsa primaria per gli abitanti di Albaredo, anticamente utilizzata per i forni del ferro, poi per produrre il carbone e per altre attività economiche. Sono, infatti, ancor oggi ben visibili i resti delle “raseghe” (seghe) lungo la via d'Orta, oltre il Dosso Chierico dove dai tronchi, utilizzando l'acqua come forza motrice, si ricavavano le assi.
Per allestire la carbonaia la prima fase consisteva nel preparare la piazzola (“ajal” o “jaal”) sulla quale collocare la catasta, in un posto pianeggiante; se non ne esisteva già una occorreva crearla. Poi iniziava la parte più difficile e delicata del lavoro. Tra i tronchi degli alberi tagliati si sceglievano i più diritti per costruire, con una specie di catasta, il forno, formando una cavità di circa mezzo metro. Attorno ad esso si appoggiavano, in posizione verticale, pezzi di legno lunghi non più di un metro, facendo circa due o tre giri. Si formava così una catasta a forma di cupola. Bisognava fare molta attenzione per lasciare al centro della catasta una specie di caminetto, che costituiva la bocca della carbonaia.
Fatto questo, si prendevano delle pietre da appoggiare alla base della catasta per creare uno zoccolo, poi si copriva di foglie, strame e terra la carbonaia, badando di lasciare aperti i canali di sfiato collegati con la cavità interna. Quando tutto era pronto, con una scaletta ci si avvicinava alla bocca che stava al centro della cupola e, con rami secchi gettati sulla bocca del camino, si dava fuoco alla carbonaia.
Terminata questa operazione occorreva seguire giorno e notte la cottura, evitando che la carbonaia prendesse fuoco e cercando di lasciarla sfiatare per impedirne il soffocamento e lo spegnimento. Questo era il lavoro più difficile, guidato dal “carbonér” più esperto, consistente nell'aprire dei fori di sfiato a varia altezza nel manto, a seconda dell'andamento della combustione che doveva procedere uniforme in tutta la massa e nel tamponare le inevitabili crepe che si formavano all'esterno per l'assestamento dei legni, a mano a mano carbonizzati e quindi divenuti più deboli. La combustione doveva essere sempre uniforme; lo si capiva dalla quantità e dal calore del fumo che fuoriusciva dal camino. Se era necessario, occorreva usare dell'acqua o chiudere i fori di sfiato per garantire la regolarità della cottura. Per questo le carbonaie si facevano quasi sempre nelle vicinanze dei corsi d'acqua.
Una scala ricavata in un tronco stava appoggiata al “pujatt” (catasta di legna) e il carbonaio la spostava, palpando con il palmo il manto in ogni posizione per rendersi conto del calore del procedere della combustione. Si andava avanti così per alcuni giorni, secondo la quantità del legno impiegato. Alla fine, il fumo usciva più chiaro: questo era il momento giusto per chiudere i fori e spegnere il fuoco.
Si lasciava passare un po' di tempo, poi si toglieva la terra. La combustione si completava, a seconda della dimensione della catasta, in due o tre giorni. Quando si era certi della completa combustione, si procedeva a disfare la catasta, sezionandola, raffreddando con acqua che si trasformava in vapore dal particolare profumo. Il carbone veniva insaccato e condotto a valle su gerle portate quasi sempre dalle donne. Quasi tutto il carbone prodotto si vendeva a Morbegno, la maggior parte alla metallurgica Martinelli e al negozio Zuccoli”.