Antichi mestieri
L’agricoltura e l’alpeggio
L’allevamento e la lavorazione del latte sono ancor oggi voci importante dell’economia della valle.
I pascoli della Valle di Albaredo si trovano quasi tutti compresi fra i 1.500 e i 2.000 m di quota. La stagione in alpeggio è un rito che si ripete da secoli e comincia con la transumanza, la migrazione stagionale di pastori e animali (mandrie di vacche e greggi di capre) che resteranno in alta quota da metà giugno a metà settembre. I giorni in alpeggio sono scanditi dalla mungitura e dalle fasi di produzione del formaggio e dalla cura del pascolo.
Strutture tipiche degli alpeggi erano i “calècc”, semplici capanne costituite da un basso muretto a secco con un telone impermeabile di copertura sorretto da pertiche e ancorato alla muratura. Nel calècc’ si trova il focolare per la caldaia del latte, il giaciglio dei pastori e i ripiani dove appoggiare le forme di formaggio (Bitto, matüsc e ricotta). Molti gli alpeggi in valle, tra i quali l’Alpe Piazza, con rifugio che può accogliere escursionisti.
Ad Albaredo, nel 2006 è stato inaugurato il caseificio Alpi Bitto dove gli allevatori conferiscono il latte che viene lavorato per produrre i formaggi latteria, matüsc, ricotta e formaggelle a pasta molle. La produzione mensile di formaggio è di circa 2500 kg.
Il taglio dei boschi
Il taglio, trasporto e lavorazione del legname era un’attività definita in dialetto “trintinà”.
Lo sfruttamento forestale ha sempre rivestito grande interesse per la valle di Albaredo perché questo lavoro per molti rappresentava l'unica possibilità di guadagno. Gli uomini tagliavano gli alberi, mentre le donne erano addette al trasporto in paese. Siccome le principali “raseghe” (segheria) si trovavano lungo la strada che porta al Dosso Chierico e nella valle d’Orta, il legname tagliato veniva portato a spalle fino alla (Madonna delle Grazie) e da qui al paese.
Il sistema di trasporto dei tronchi dal bosco alla segheria avveniva utilizzando il corso del Bitto o quello dei torrenti collaterali, di Piazza e Pedena in particolare.
Venivano tagliati l'abete rosso e il pino silvestre per farne tavole e per bruciare; il pioppo che serviva per le tavole usate dai muratori e il pino rosso e il pino bianco (abete bianco) per realizzare mobili. Il tronco veniva tagliato in pezzi da 4 a 6-7 metri di lunghezza, poi si toglievano i rami e la corteccia e si tagliavano le tavole. Ad autunno inoltrato iniziava il greve lavoro del taglio e del trasporto della legna. Dai burroni scoscesi tronchi e legni venivano fatti rotolare verso il basso, poi trainati lungo le “strade”, sorta di larghi sentieroni tagliati per lo più in orizzontale sulle pendici della montagna con carri, sostituiti solo in tempi più recenti da slitte con ruote di ferro trainate da muli.
La lavorazione delle castagne
In ottobre la castagna era matura e la si abbacchiava salendo sugli alberi e spostandosi di ramo in ramo.
L'operazione veniva effettuata dall'uomo più valido della famiglia: intervenivano poi le donne e i ragazzi che con tenaglie di legno o "risciaröle", raccoglievano in cesti i ricci. Passato il giorno dei morti i ricci erano stesi e battuti con un mazzuolo; le castagne abbandonavano i ricci, venivano messe nelle gerle e portate nelle case o nelle cascine, dove nel piano più alto vi era il "secadur" (essiccatoio) con focolare centrale e sovrastante grata. L'essiccazione durava da uno a due mesi; dopo di che le castagne venivano battute e con il “val” (setaccio) si eliminavano le bucce.
A volte una manciata di castagne cotte rappresentava l'unico alimento per sfamarsi in qualsiasi occasione, come colazione, a pranzo o a cena e per questo la castagna ha sempre avuto nella valle una grande importanza: lo testimonia la presenza di secolari castagneti, in passato tenuti con grande cura dai proprietari.
Nella valle di Albaredo i castagneti, "èrbui", si trovano in larga parte ai limiti dei prati coltivati. Una gran parte dei frutti veniva fatta essiccare per conservarli e utilizzarli anche nella primavera successiva e in estate. Le castagne secche si cuocevano nella minestra, nel latte, con le patate e in altri modi, secondo i gusti.
La realizzazione degli zoccoli
Gli zoccoli si realizzavano con grossi pezzi di legno di abete o di betulla, oltre che per usi privati, per venderli.
Si utilizzavano diverse tipologie di zoccoli: quelli “della festa” avevano nastri ("nastula") per renderli più eleganti; quelli da calzare in montagna o nel bosco avevano sulle suole dei chiodi ("zocui ferà"), per non scivolare sulla neve. Oltre che all’aperto gli adulti portavano gli zoccoli anche in casa, non i bambini.
Per realizzare gli zoccoli si spacca a metà e con il segǘrin (scure) un grosso pezzo di legna e lo si lavoro per dargli la forma; si pratica una fenditura centrale sotto la pianta e poi si rifiniscono con il cavadùr (cacciavite). L’ultima operazione è la collocazione della fascetta di cuoio fissata ai lati con chiodini.
La realizzazione del gerlo
Attrezzo da trasporto tipicamente alpino, il gerlo (gérlu) consistente in un grosso cesto a forma di cono rovesciato dotato di due cinghie per il trasporto sul dorso; era molto diffuso per il trasporto di fieno, letame, foglie e patate. Un tempo veniva anche usato per riportare in alto la terra che nei campi in pendenza scendeva a valle e si raccoglieva in fondo al pendio.
In alta Valtellina non si trova il gerlo ad intreccio rado ("campàc") che è diffuso nel resto della valle fino a Grosio; più leggero e capace rispetto a quello a intreccio fitto, viene normalmente utilizzato per il trasporto di fieno e foglie. La costruzione e la riparazione dei gerli era ed è generalmente affidato ad appositi artigiani.
Il gérlu è formato da "li còsc-ta" (stecche verticali), che si infilano nel fondo ("colòsc-tro") a formare una struttura di forma conica; attorno ad essa corre un intreccio di strisce di vimini ("li sc-cudìcia") che danno consistenza e robustezza a questa sorta di grosso cesto. Il legno più utilizzato per la realizzazione dei vimini è la betulla ("bedùia"), che presenta ottime caratteristiche di flessibilità e resistenza. In alternativa si può usare il salice ("sàlic"), che però è meno resistente, o il nocciolo ("culór") che è più pesante.
La lavorazione della canapa
I valtellinesi e i valchiavennaschi da sempre filarono e lavorarono la lana, la seta e la canapa. Si trattava di lavorazioni prettamente casalinghe fino alla seconda metà del secolo scorso.
In Valtellina e in Valchiavenna venivano tessute lane grossolane, particolarmente adatte alle esigenze connesse alla fabbricazione degli indumenti dei contadini.
Oltre allo sfruttamento della lana l'artigianato tessile si basava sull'utilizzazione di fibre vegetali, come la canapa e il lino, la cui coltivazione nelle nostre valli risaliva a tempi assai remoti.
La lavorazione della canapa e del lino richiedevano una certa preparazione preventiva che consisteva, in particolare, nella sfilacciatura con un apposito attrezzo chiamato "fraia", almeno nella zona di Sondrio. La fraia, ossia la gramola serviva appunto per dirompere i fusti della canapa e del lino; operazione che seguiva a quella della macerazione e a quella dell'essiccamento. La canapa in Valtellina è sempre stata coltivata per soddisfare le necessità della famiglia e in termini di lenzuola, teli e cose simili. La sua tessitura, pur essendo praticata come lavoro domestico, richiedeva una certa specializzazione tecnica che è sempre stata prerogativa di alcuni paesi della Valtellina.
La coltivazione della canapa, come del resto quella del lino, è scomparsa da tempo in provincia, anche se pare che a Filorera, in Valmasino, la sua produzione abbia continuato fino all'inizio degli anni Sessanta. La canapa veniva coltivata in tutta la zona, tanto di pianura come di montagna, di primaria importanza perché con la lana di pecora era l'unico elemento per confezionare manufatti tessili. Veniva seminata in primavera, ma verso la fine di giugno venivano estirpate dal campo tutte le piantine femmina che maturavano precocemente, riconoscibili per le spiga piena di semi. Le piante maschio invece erano lasciate a dimora fino al pieno della loro maturazione, anche perché erano le uniche adatte alla tessitura.
La macellazione
Un' altra attività che ha sempre avuto grande importanza in provincia è quella relativa alla lavorazione degli insaccati: l'uccisione del maiale e la lavorazione delle sue carni era una tradizione contadina che prevedeva l'opera di esperti norcini che svolgevano la loro attività al domicilio del cliente.
Il maiale fino agli anni '50 era allevato dalla maggior parte delle famiglie. Generalmente lo si acquistava piccolo al mercato e si procedeva poi all’ingrasso. I maiali inizialmente pesavano otto dieci chili e in pochi mesi arrivavano a superare il quintale grazie all’alimentazione a base degli scarti da cucina ("culùbgia") e, durante l’autunno a base di castagne, polenta e patate. Durante l’estate il maiale veniva anche portato in alpeggio.
L'uccisione del maiale aveva luogo nei mesi invernali. Il macello era semplicemente fatto in qualche angolo di strada vicino all’abitazione del proprietario, e l’intero rito occupava due giorni.
Una volta frollata la carne si provvedeva a spolpare i quarti e a suddividere con cura la carne dal lardo per ottenere "cudighin", "luganech", "salam" e "murtadela" (cotechini, salsicce, salami, mortadelle di fegato) e il "salam de testa" che veniva insaccato nella vescica. Si provvedeva poi alla macinatura delle varie partite di carne e si preparava la pasta miscelando alla carne le spezie, l’aglio e il sale utilizzati per il sapore e per la conservazione. L’impasto ottenuto veniva posto nell’insaccatrice che riempiva i budelli di pasta che poi venivano legati con dello spago. Si procedeva in ordine insaccando cotechini, salsicce e salami, passando poi agli insaccati minori cioè mortadella di fegato e salame di testa.